Il nostro approccio nei confronti della salute mentale ha origine dalla convinzione che la “follia” non può e non deve togliere la soggettività al malato. Concordiamo infatti con l’idea che tentare di oggettivare la malattia psichiatrica, cercare di curarla, cioè, indipendentemente dall’individuo che ne soffre, finisce per “cronicizzare” il malato.
Viceversa crediamo, e il nostro lavoro ce lo conferma, che la “follia” sia soprattutto l’espressione di una personalità in crisi, la quale tuttavia non toglie al malato il diritto di essere persona e, quindi di essere, oltre che curato, anche ascoltato nei suoi bisogni, incoraggiato nei suoi timidi progressi relazionali, accompagnato negli ambiti in cui ha paura a spingersi da solo. Ogni persona, a seconda del momento storico della propria crisi, necessita perciò di un intervento che agisca su quelle “disfunzioni” che lo stanno limitando negli obiettivi della propria vita e nei propri diritti di cittadinanza.
Noi crediamo che una delle cause di questo fenomeno sia proprio la scarsità o l’assenza di relazione tra individui; una crescente disattenzione per il “fattore umano” a vantaggio di processi produttivi e dinamiche sociali sempre più espulsivi e incuranti della soggettività.
Qualsiasi tentativo riabilitativo che prescindesse da un rapporto, da una relazione significativa, da uno “stare con”, non otterrebbe quindi altro risultato se non di riprodurre nella vita del malato quell’isolamento affettivo, quella impossibilità a comunicare i propri sentimenti che, probabilmente, sono all’origine della sua crisi.